La persona e il sacro

Mi è capitato tra le mani un magnifico libretto filosofico di una cinquantina di pagine, che ho letto tutto d’un fiato. Si tratta de La Persona e il Sacro di Simone Weil, curato per le Edizioni Adelphi da Maria Concetta Sala, con un saggio di Giancarlo Gaeta. Questo “tascabile” è la chiara dimostrazione che per scrivere un gran libro di filosofia non è necessario produrre tomi di mille pagine, ma ne bastano anche molte di meno, se le riflessioni prendono e toccano il cuore del lettore. Ho usato non a caso la parola cuore, proprio perché in queste considerazioni della Weil, scritte nel 1943 a Londra, solo pochi mesi prima della morte per tubercolosi alla giovane età di trentaquattro anni, la filosofa francese fa appello all’umanità più intima di ciascuno di noi. Sullo sfondo riusciamo a scorgere le immagini del genocidio nazista, dei campi di sterminio, dell’orrore, in breve, della seconda guerra mondiale, che aveva visto distrutta anche la sua amata città di Parigi. E vi sono le suggestioni di una filosofia nuova, il personalismo di Mounier e Maritain, e della rivista Esprit, che Simone legge avidamente dagli anni trenta. Non a caso il titolo del saggio della Weil contiene due parole fondamentali per comprendere il senso del suo filosofare: la parola persona, e la parola sacro. La persona, ideale astratto che per Simone finisce sempre per incarnarsi in una posizione socialmente significativa, è l’obiettivo e il valore che hanno di mira i personalisti. I filosofi dell’Esprit vorrebbero infatti ricondurre ogni discorso sostanziale alla concretezza dell’essere umano, nella sua rappresentazione laica, o caricandolo di significati religiosi di provenienza cattolica. Ma la persona, dice Weil, finisce per essere anche indistinguibile dalla posizione sociale e dal ruolo che il singolo in essa incarna. E così, piuttosto che alla persona, bisogna ritornare all’individuo, non inteso nel senso solipsistico che anche i personalisti rigettano, ma nel senso di individualità e unicità che fa di ogni uomo proprio quell’uomo lì e non un altro da lui. Con la consapevolezza che ogni individuo è naturalmente portato al bene, e alla giustizia, così intesa come fonte ed espressione della sacralità di ogni vita, che si ritrova in Dio. Vale la pena spiegare, a questo punto, che il rapporto della Weil con la chiesa cattolica fu sempre molto contrastato. Un amore-odio che, sebbene la spinse quasi alle soglie del Battesimo, che tuttavia mai ricevette, determinò in lei un orientamento mistico, che le farà ritrovare in ogni uomo quella radice del sacro che lo riporta al suo Creatore, rifiutando sempre la Chiesa come istituzione, in quanto memore di quel noto detto, “anatema sit”, simbolo del male e sinonimo di ogni totalitarismo. Alla dialettica del dialogo socratico, in cui un io e un tu si incontrano e si ritrovano, Simone fa così spazio al “farsi vuoto” per accogliere l’altro nel silenzio. Ribadendo come sia proprio nel silenzio, lontano dalla folla rumorosa del collettivo, che ciascuno si riconosce in sé. Laddove la persona, immersa nel caos della socialità, rischia di perdersi in una dimensione di massa, smarrendo la sua dimensione più propriamente umana.  Se le parole della Weil trasudano pensieri di platonica memoria, è anche vero che, all’interno della tradizione occidentale è facile trovare anche quelle che sono le suggestioni della filosofia orientale e delle Upanishad, che Simone lesse e studiò con interesse, apprendendo da quei testi antichi l’attenzione al farsi vuoto, e all’annichilimento personale dell’io, per far spazio in sé all’altro da sé. La riflessione filosofica di Simone, docente di filosofia attenta alla dimensione politica del suo tempo, e forse proprio per questo in perenne contrasto con i genitori delle sue allieve, che si scontravano con la sua mentalità troppo libertina per una donna dell’epoca, riguarda anche i temi del lavoro. Ed è proprio studiando la dimensione del lavoro che la filosofa sceglie di andare a lavorare in fabbrica, alla Renault, per incarnare, vivendola dal di dentro, la vita dell’operaio salariato, che Marx definiva schiavo alienato della macchina e del lavoro, del quale la stessa Weil ritrova agevolmente la dimensione della reificazione nel concetto di forza lavoro. Solo gli esiti del suo pensiero saranno diversi da quelli del teorico della rivoluzione. Il discorrere di diritti richiama sempre ad un concetto di forza violenta che deve opporsi, per agire, a qualche altra forza che gli fa a sua volta violenza. L’idea dello scontro politico dialettico ripugna da sempre a Simone, che cerca invece nelle parole giustizia, bene, verità, bellezza, quegli stessi valori a cui già Socrate e Platone si erano ispirati nell’antichità. Perché ad una sola parola potevano tutti questi ideali essere ricondotti. Alla parola amore. E c’è, tra diritto e amore, una distanza abissale, a segnare il solco profondo tracciato dalla tradizione filosofica con la pretesa dei rivoluzionari francesi del 1789, a normare tutti gli aspetti della vita umana. L’uomo è qualcosa di talmente grande nella sua debolezza, che davvero la sua forza non può essere rinchiusa e circoscritta dalle leggi, né tanto meno dal diritto come pretesa. Solo il senso della giustizia, come di questa forza che nasca dalla debolezza dell’essere nella sua precarietà, può invece innalzare l’uomo a dignità di essere umano, attraverso l’amore. Il più grande grido dell’uomo contro le ingiustizie non è allora “Perché lui ha più di me?” quanto piuttosto “Perché mi fai del male?”. Ed è pressappoco lo stesso grido profferito dalle labbra del Cristo morente in croce, lo stesso urlo silenzioso degli Ebrei sterminati nei lager. La sensibilità di Simone Weil si avvicina molto qui alle emozioni che scatenano le parole del diario di Etty Hillesum, l’ebrea olandese che morì ad Auschwitz. Davanti ad un così incontenibile grido di dolore di tutta l’umanità per quanto sta succedendo in Europa durante l’orrore dell’olocausto nazista non si può dare una risposta razionale. Il mondo si è materializzato facendo a meno della sacralità. Come se l’intera umanità avesse perso la dimensione del sacro, che rende possibile scorgere nello sguardo dell’altro lo sguardo del proprio fratello ad ogni latitudine. Così anche quella dimensione della persona umana, che all’inizio sembrava del tutto rigettata da Simone, pare venga recuperata con il senso di una processualità che rende possibile un graduale passaggio dalla persona, cristianamente intesa come unità indissolubile di corpo e di anima, a trasmutare nell’oltre della relazione e della comunione, verso la vocazione, il sacro, la dimensione dell’alto, muovendo da quella dell’andare verso l’altro. D’altra parte non si possono cancellare d’un colpo le suggestioni filosofiche di una filosofia personalista che, per prima, insegnò a rigettare l’abuso dell’uomo sull’uomo, respingendo qualsiasi appoggio ai totalitarismi, così come alla violenza e alla sopraffazione reciproca. Maritain con il suo Umanesimo Integrale e Mounier con Il Personalismo gettano le basi di un orientamento di pensiero arrivato fino a noi, politicamente ispirato al comunitarismo, per combattere ogni forma di alienazione dell’uomo moderno e contemporaneo. Ma è a partire dalle riflessioni di Mounier che ci arricchiamo dell’idea di persona come incarnazione in sé, comunione all’altro attraverso la relazione, e vocazione all’alto nel rispetto da parte dell’uomo della sua più propria natura, senza escludere in alcun modo il valore e il significato intrinseco dell’essere umano, che rimane comunque persona, come unità aristotelica ed indissolubile di corpo e anima. La svolta mistica fa credere a Simone di poter fare a meno della concretezza sociale della persona, del suo status. E non possiamo darle torto se tutto questo vuol dire incontrare l’altro facendogli spazio dentro me, svuotandomi per permettere all’altro di entrare. Anche nel suo libro La Prima Radice, in effetti, dando soluzioni reali allo sradicamento del Novecento, ella parla di obblighi piuttosto che di diritti. Di ispirazione all’amore come massimo obiettivo possibile per l’essere umano. Siamo però anche consapevoli del fatto che la sventura, per usare la stessa terminologia della nostra filosofa, sia sempre dietro l’angolo, come una delle orribili possibilità della vita. Ed è per questo che resta difficile rinunciare alle organizzazioni partitiche, ai sindacati e alle loro lotte sociali. Alla questione dei diritti e della loro salvaguardia per il rispetto della integrità dell’essere umano e della sua stessa dignità. L’amore rimane ancora una grande utopia. Alla quale non si vuole dire di dover rinunciare, senza dover tuttavia perdere completamente se stessi nella ricerca dell’altro. D’altra parte lo stesso richiamo al radicamento coincide con la dimensione dell’incarnazione, come spinta verso il basso, di cui parla Mounier. Non credo siano del tutto in conflitto tra di loro le due posizione filosofiche. Anzi, mi permetto di sostenere che esistono molti più punti di contatto tra il personalismo di Mounier e la filosofia della prima radice di Weil di quanti se ne possano, leggendo La Persona e Il Sacro, scorgere e ipotizzare. Resta un fatto che la stessa vocazione di cui parla il fondatore dell’Esprit non è altro che il preciso richiamo verso l’alto, il trascendimento, il sacro di Simone Weil. Quella dimensione dell’interiorità umana che noi chiameremmo oggi la religiosità e la spiritualità di ogni uomo, completamente tralasciate dai regimi totalitari del Novecento, che avevano invece saputo ridurre la selezione della razza migliore ad una mera questione di fattori e caratteri ereditari alla Mendel. Il grido dell’uomo è, in queste filosofie, un orrore inveito a perdifiato  contro il nichilismo della scienza ed il dominio della tecnologia, che vogliono evolvere la vita in mute forme senza anima, cosificandola e riducendola alla logica di mercato che reifica l’uomo e il suo lavoro. Mentre c’è, nell’individuo, qualcosa di molto di più. Sta alle filosofie dell’oggi come alle politiche del domani riscoprirne il suo immenso valore.

Articolo pubblicato su GazzettaWeb

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