Una Vita di Italo Svevo



Dopo aver riletto, l’estate scorsa, La Coscienza di Zeno, torno a leggere Italo Svevo con il suo primo romanzo del 1892, Una Vita, che narra la storia di Alfonso Nitti, un impiegato come ce ne sono tanti. A ben pensarci, però, Alfonso è uno di quelli che non si adattano facilmente alla scrivania, e che, pur sapendo assai bene di doversi mantenere con un lavoro onesto, per vivere, continua a sognare ad occhi aperti. Ed il suo sogno era quello di fare l’intellettuale, magari lo scrittore. Il filosofo, come dice più volte lui stesso, nel corso delle pagine del libro. Alfonso sa di valere di più di quel lavoro alla corrispondenza. Soprattutto nutre aspirazioni che i suoi colleghi stentano a capire. Egli ama la letteratura, ma sa anche che l’arte e il pensiero, esercitati così, per se stessi, non danno pane. E si rassegna, si piega, a quel lavoro umile, ma onesto, che sua madre gli trova fuori paese. La lontananza non pesa ad Alfonso, che tuttavia pensa spesso a tornare a casa, a lasciare tutto quanto. Ma poi resiste, mettendo a posto la testa. Uccidendo i suoi sogni. E l’abitudine, si sa, diventa un costume di vita. E Alfonso comincia a rinunciare, progressivamente, a tutto ciò che ama di più. Desidera Annetta, la figlia del suo capo Maller, e fa di tutto per ottenere il suo amore. Eppure, dopo averla disonorata, quasi gli diventa spregevole, e non fa nulla per coltivare il suo affetto e la sua devozione. Anzi, al contrario, ed inaspettatamente, decide di partire, di tornare da sua madre al paese, inventandosi la scusa di una sua malattia. Ironia della sorte, giunto a casa, scopre che la madre è ammalata sul serio, e non aveva voluto chiamarlo per non distoglierlo da quell’impegno di lavoro, per lei così importante. Così Alfonso trova una plausibile giustificazione al suo abbandono. Ma dentro di sé sa anche di non provare più amore per la donna che ha così facilmente sedotto. E lascia scorrere il tempo, senza mostrare interesse per quel legame ormai lontano. Solo dopo la morte della madre, tornato al lavoro in città, scoprirà che la lunga attesa aveva fatto cambiare idea ad Annetta, che si era promessa a suo cugino, da tempo silenzioso pretendente della sua mano. Alfonso non capisce ancora l’importanza del suo legame rinnegato, e si consola con la povera Lucia, figlia dei suoi ospiti, abbandonata dal suo promesso proprio mentre scopre di essere incinta di lui. Alfonso si fa in quattro per permettere ai due giovani di sposarsi, fino a promettere la dote per Lucia, sacrificando quasi tutti i suoi risparmi di lavoro. Crede, così, di aver dimostrato la sua generosità e gratitudine nei confronti di una famiglia che si era presa cura di lui, solo e lontano dalla casa materna. Alfonso, in effetti, si è sempre sacrificato per qualcuno, rinnegando i suoi stessi bisogni di uomo, mettendo a tacere i suoi istinti affettivi, le sue necessità di compagnia. Avrebbe potuto avere tutto, se fosse stato un vincente, se avesse incarnato il modello superomistico. Ma Alfonso è un inetto, un incapace. Così rinuncia, senza un vero motivo, alla felicità matrimoniale e alla carriera. E perde tutto in un colpo solo. La sua ignavia non gli fa comprendere fino in fondo il peso della perdita, se non quando è ormai troppo tardi. Maller lo destina, punitivamente, alla contabilità, finendo per mortificare ulteriormente le aspirazioni letterarie del Nitti. Annetta lo allontana definitivamente da sé. Alfonso è solo. Per salvare la sua dignità di uomo non gli resta che il licenziamento, che lo getterebbe in mezzo alla strada, povero, da un giorno all’altro, e senza una possibilità immediata di reimpiego. Il disonore che lui stesso ha procurato ad Annetta diventa il suo stesso disonore, di uomo vile, che fugge davanti alla difficoltà, fino a lasciar prendere ad altri il posto che sarebbe stato suo di diritto. Non gli resta che una sola via d’uscita. Il suicidio. Quel suicidio che per Schopenhauer non avrebbe risolto il dolore metafisico del mondo, ma che aiuta Alfonso a non sentirsi morire giorno dopo giorno in un’esistenza che egli sente ormai come estranea a sé. Alfonso aveva amato una sola donna nella sua vita: sua madre. E la sua morte lo aveva privato della voglia di vivere. Era come se fosse già morto anche lui, progressivamente. Perché una vita di negazioni lo aveva pian piano portato alla negazione totale, assoluta della vita stessa. Alfonso muore solo, dimenticato da tutti. Ma il suo suicidio gli dà pace, e trasmette pace a tutti coloro i quali la sua morte non avrebbe che potuto portare un po’ di bene. Alla famiglia Lanucci, che si arricchisce della sua eredità. Ad Annetta, che sposa un disonorato, che nessuno saprà mai essere tale.
(articolo pubblicato su Gazzettaweb)

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