Il pensiero filosofico di Martin Buber



Buber è un Ebreo austriaco che studia per quarant’anni il Chassidismo e traduce la Bibbia in ebraico. È convinto che l’uomo orientale “motorio” possa coinvolgere ed attirare a sé l’uomo occidentale “sensorio”, che fa prevalere la forma concettuale sulla dimensione dell’essere in cammino verso…Per Buber l’uomo contemporaneo è solo e senza casa. L’epoca di crisi in cui vive lo pone di fronte a se stesso come problema. Ma non è la sua una questione che si possa risolvere con l’individualismo, che lo isola nel monologo senza confronto, né con il collettivismo, che esaspera la sua condizione di isolamento nella massa amorfa e rende il singolo del tutto omogeneo al collettivo. Esiste tuttavia una dimensione dialogica che può conciliare l’uomo con se stesso ed i suoi propri simili. Già Feuerbach aveva parlato del dialogo, riprendendo l’antico motto socratico del conosci te stesso. Ed era, nella filosofia del tedesco, una pratica che culminava necessariamente nell’amore reciproco tra i due interlocutori, fino a costituire una comunità di parlanti, in cui domina e sovrasta la condizione della laicità umana che fa della filosofia una ricerca di tipo antropologico. Così anche in Buber, in cui nella realtà del dialogo io-tu si aggiunge, sebbene nell’orizzonte della temporalità immanente, la dimensione trascendente dell’interumano e del Tu Eterno. Questo Tu non è ancora Dio, anche se la dimensione del “tra”, come terzo interlocutore, ne lascia trasparire la possibilità. Nel dialogo l’uomo può recuperare la sua totalità, che si è infranta quando si è spezzata l’unità primordiale di spirito e vita, dando storicamente origine agli eccessi dello spiritualismo e del materialismo, sintomi odierni di una crisi di identità che non accenna a superamenti possibili. La filosofia del dialogo, invece, si presenta come una strada che conduce all’incontro, non indicando una meta trascendente, ma rendendo trascendente l’andare insieme che segna la dimensione dell’essere in cammino. L’io-tu fonda il mondo della relazione e del presente come l’io-esso fonda l’esperienza oggettuale e la coseità del passato. Il tu è sostanza ontologica e prima dell’esistenza di relazione, in cui ci si arricchisce reciprocamente come persone, laddove il mondo scientifico dell’io-esso oggettiva reificando l’essere umano. L’io-tu è il mondo dello spirito e della libertà, come l’io-esso è il mondo della causalità e della necessità. Ma solo nella relazione c’è spazio concreto per la decisione e per l’azione, che costruiscono il mondo storico che si svela nel volto dell’altro, laddove il mondo scientifico esprime l’orizzonte dell’immobilità e della datità oggettiva del reale. Nella libertà l’uomo libero realizza il suo proprio destino, che non esprime il legame con la fatalità quanto la stretta relazione con l’arbitrio, che diventa usuale abito di comportamento nello schiavo senza consapevolezza di sé. Va anche precisato che non è tanto la relazione io-tu o io-esso in quanto tale a fare di un rapporto un legame umano che si attua nel presente della storia, o una datità oggettuale in cui l’io si isola e si aliena da se stesso per estrinsecarsi nel mondo del passato e della necessità causale. Ciò che contraddistingue lo stare in una relazione è la modalità in cui l’io considera ciò che gli sta di fronte. Se il mondo viene percepito come ciò che gli si oppone e che lo nega, allora non è possibile alcun altro rapporto che quello di tipo conoscitivo o scientifico, che prende le distanze dall’oggetto e lo allontana da sé come altro da sé. Anche un essere umano può essere reificato in una forma e separato dall’io come questo altro che gli si oppone. E una cosa può invece entrare a far parte di una relazione se la sua presenza è significativa e arricchente per l’io che ha interesse a stabilire un contatto dialogico con essa. Vi sono tre modi possibili di relazione io-tu, che Buber descrive in Io e Tu. “L’io socratico, così vivo, così espressivo, come suona bello e legittimo! È l’io del dialogo senza fine, l’aria del dialogo lo avvolge per tutte le sue vie, persino davanti ai giudici, persino nell’ultima ora di prigionia. Questo io viveva nella relazione con gli uomini, attualizzata nel dialogo. Credeva nella realtà degli uomini e andava loro incontro. Era con loro nella realtà, e la realtà non l’abbandona più. Persino la sua solitudine non può mai essere abbandono e, se il mondo degli uomini non gli parla più, ode il demone dire tu. Il pieno io goethiano, come suona bello e legittimo! È l’io del puro rapporto con la natura; la natura gli si arrende e gli parla incessantemente, gli svela, senza tradirlo, il suo segreto. Quell’io crede nella natura e dice alla rosa: “Sei tu dunque”, fa parte con lei di una medesima realtà. Così, quando l’io ritorna a sé, lo spirito del reale rimane con lui, la vista del sole è impressa nell’occhio felice, che si rammenta della sua solarità, e l’amicizia degli elementi scorta l’uomo nella quiete della morte e del divenire. Così risuona, nel tempo, il dir io “adeguato, vero e puro” di coloro che partecipano della relazione, il dir io della persona socratica e goethiana. E per dare un’immagine anticipandola dal regno della relazione assoluta: come è potente, fino a soggiogare, il dir io di Gesù, e come è legittimo, fino a diventare ovvio! Perché è l’io della relazione assoluta, in cui l’uomo chiama padre il suo Tu, in modo tale da essere egli stesso solo figlio e nient’altro che figlio”. Ed è questa la novità della relazione espressa dall’io-tu di cui parla Buber. In essa esiste la possibilità del terzo interlocutore, che è il Tu Eterno, il Tu di Dio, con il quale l’essere umano comunica nella dimensione dell’alto, passando attraverso la dimensione dell’altro. Di modo che ogni relazione immanente si apra al trascendente. Dio ha bisogno dell’uomo, ed è per questo che cerca la relazione dialogica anche il Creatore che, lasciato solo nell’atto del creare, proprio come un bambino cui venga inculcata la creatività come unico fine dell’apprendimento e della formazione, si sentirà sempre e comunque condannato alla solitudine. Solo il dialogo libera l’esistente dalla solitudine del fare, facendolo diventare interlocutore, prossimo all’altro, comunicante. Il dialogo io-tu è possibile con la natura, attraverso l’osservazione muta che manca di parola; con l’altro essere umano, nel cui volto si cela la possibilità della comprensione; con le essenze spirituali e con Dio, in cui l’interumano irrompe nella storia dell’uomo, elevando la relazione dialogica dall’altro all’alto e alla sua eternità. Il fine del dialogo è quello di dare un senso al vivere. E il senso più pieno e fecondo è nell’evento dell’amore, che si esplica nell’amare e nell’essere amati. Amare non è dialogare, in effetti, ma nemmeno è concepibile un amore senza dialogo. E dialogare in modo autentico non significa necessariamente parlare. Proprio come accade agli innamorati, quando c’è vero dialogo si può stare anche in silenzio, senza per questo smettere di essere l’uno per l’altro. Perché nel silenzio l’intesa non si rompe, ma si amplifica e si fa più profonda. Quando, invece, il dialogo non è autentico, o è un monologo o è un discorrere tecnico su qualche oggetto, ed è perciò più simile alla relazione io-esso che a quella io-tu. Ma il dialogo autentico è ciò per cui siamo venuti al mondo, ciò che ci appella ed interpella, chiamandoci per nome, con tutta la individuale singolarità che si fa comunità dialogante in crescita e in cammino verso la verità. In cui ciascuno viene riconosciuto per se stesso, e non omologato e coperto dalla massa informe. Rispondere alla chiamata e all’appello vuol dire assumersi la responsabilità del venire al mondo e del lasciar esistere l’altro accanto a sé, non per ciò che mi rappresenta, ma per il valore intrinseco della sua stessa vita e dell’esperienza che mi porta. L’esistere dell’uomo è tutto un dialogare, domandando e rispondendo incessantemente alla natura, all’altro, al mondo storico nel quale ci si trova a vivere. L’alternativa è il monologo solitario o lo sguardo della scienza, freddo e distaccato nella sua oggettività. Non è il silenzio che segna, comunque, l’assenza di dialogo, quanto il rumore e la ridondanza del già detto. Tra i filosofi che hanno parlato dell’uomo come categoria della possibilità vi è Kierkegaard che introduce il singolo che, solo, apre al dialogo con Dio. A differenza dell’unico di Stirner che si riconosce come tale solo attraverso il possesso di beni materiali, fonte di libertà per l’uomo dell’avere, il singolo è l’uomo che intesse relazioni con il suo Creatore, cercandole affannosamente. Il problema di Kierkegaard è che lui stesso, per interpretare al meglio questo modello umano, abbandonò Regina Olsen, rinunciando al solo amore terreno che aveva per rincorrere l’ideale spirituale di un rapporto con Dio, realizzabile nella solitudine e nell’isolamento personale. Fa un po’ specie che per attualizzare un incontro con il Creatore, l’uomo di Kierkegaard debba poi rinunciare alla relazione con le sue creature. Se Lutero si sposa per reagire visibilmente alla rigida castità imposta dalla morale della chiesa cattolica, che poi sfocia spesso in disobbedienza e degenerazione dei costumi, Kierkegaard rinuncia al matrimonio proprio perché vede in quell’unione il vincolo che gli impedirebbe di dire pienamente sì al suo Dio, realizzando così, concretamente, le più elevate aspirazioni della perfezione morale, attraverso l’incontro con Lui. Nella categoria del singolo di Kierkegaard vi è, comunque, anche un rifiuto della massa, che rappresenta l’omologazione in cui si perde la singolarità degli esseri umani. Quella stessa singolarità da lui tanto rincorsa da poter rinunciare, in suo nome, persino al legame d’amore più importante che il filosofo danese aveva saputo costruire nel corso della sua esperienza terrena. Ma è, forse, il suo dialogare privo della relazione irrinunciabile con le creature di Dio. Laddove il vero dialogo è possibile solo dal sorgere dell’interumano, che è parlarsi autenticamente, senza veli e finzioni. Aprirsi totalmente all’altro senza voler nulla imporre di sé. Rendere l’altro presente all’ascolto. Non è un falso parlare in cui ognuno fa il suo monologo, al contrario un far emergere l’interlocutore dallo sfondo, dalla massa, dal gruppo, che spengono il bisogno di incontrarsi a tu per tu con il cuore in mano. Solo così sarà possibile costruire quella relazione in cui acquista un senso nuovo la frase biblica di Dio “ti ho chiamato per nome, tu sei mio”. 

Articolo pubblicato su GazzettaWeb

Nota bibliografica
Per questo articolo si rimanda alle letture di seguito:

1) Martin Buber, Il Principio Dialogico e altri saggi

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